ANGELO CRESPI PRESENTA
“L’APPARENZA E L’ESSENZA”
MOSTRA PERSONALE
Roma, Palazzo Velli – 02/04 OTTOBRE 2020
L’apparenza e l’essenza nell’opera di Vandelli. Tra Licini e Schifano di Angelo Crespi
“Decipit prima frons multos”, scrive Fedro, la prima impressione spesso inganna. Ma anche no. Talvolta l’apparenza infatti coincide con l’essenza ed altre volte, similmente, l’essenza si manifesta ed appare senza tema ben oltre l’apparenza.
Questo sottile dilemma spiega l’immagine scelta da Marcello Vandelli per la sua personale di Roma. Egli appare su un destriero bianco in posa di imperatore, l’elmo piumato di rosso, nella mano alzata non il gladio bensì alcuni pennelli a mo’ di fiaccola e, al posto della bisaccia, barattoli di vernice; sullo sfondo il Colosseo dipinto.
A metà tra la statua equestre di Marco Aurelio e il Brancaleone di Gassman, sta dunque il personaggio surreale che si è scelto Vandelli per auto rappresentarsi in questa discesa antimodernista dentro i meandri della capitale; e fa l’effetto di quando Battisti e Mogol nel 1970 decisero di attraversare l’Italia a cavallo, da Milano a Roma, scoprendo lo strapaese che resisteva nelle provincie e nelle borgate cantate con tono epico da Testori e Pasolini.
Sembra uscito, Vandelli, dal colorificio Poggi, dietro il Collegio Romano, dove Memmo tra una chiacchiera e l’altra serviva Balthus e Schifano. E proprio Schifano è uno dei miti a cui guarda Vandelli che, fosse nato trent’anni prima, sarebbe stato di certo uno della schiatta della pop art romana, non solo per i modi, in cui goliardia e follia ben si mescolano, ma per il tipo di pittura in cui la modernità coi sui miti e i suoi loghi viene inglobata nella grande tradizione della pittura italiana e vira non alla flatness come Oltreoceano (si pensi a Warhol), semmai esondando nell’informale ci appare familiare.
Ci sono opere, tra quelle meno recenti o anche, per esempio, tra quelle in mostra (“Le muse inquietanti” o “La pura carne”), che sono quasi dei calchi di alcune tele del miglior Schifano, ed altre con le siluette in negativo di uomini che ricordano Renato Mambor, o di donne che richiamano i lavori di Giosetta Fioroni. Il tutto accelerato e centrifugato dalla contemporaneità più stretta, e da una originalità intrinseca del pittore modenese che lo fa nobile discendente del fauvismo padano alla Ligabue.
Certo, l’aspetto più visionario – ben colto da Vittorio Sgarbi – non può che farci riandare al Licini di Amalassunta, cioè a quel figurativismo fantastico di quando il pittore marchigiano negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento tornò dall’astrattismo a una figurazione densa di richiami onirici e mitologici. Prima frons decipit…
Non dobbiamo però farci ingannare dallo scherzoso tono con cui Vandelli si presenta, neppure dall’esondante tavolozza di cui maschera i propri intenti, piena di colori in cui prevalgono i rossi e gli aranci, piuttosto soffermarci sull’essenza di un lavoro che ha un forte substrato politico (si veda “I deboli sono destinati a soffrire”), che evidenzia una tensione civile (“Laboratorio umano”), ed anche uno sfondo lirico esistenziale (“La vita che non vedi” o “L’arte di essere fragili”) che può addirittura sfociare, a tratti, nel religioso (“Nessuno si salva da solo”).
Nell’insieme, un’opera di grande espressività, di esuberante creatività, di irriducibile simbolismo nella quale in molti casi il simbolo verte al segno e l’aspetto cromatico diventa elemento centrale. E torniamo all’inizio: “apparenza” ed “essenza” coincidono, e nello stesso tempo la seconda nega la prima, o forse è la prima che esalta la seconda, così che nel districarsi dell’endiadi il nostro sguardo si perde innamorandosi tra colore, forma, senso.
Angelo Crespi