VITTORIO SGARBI PRESENTA
“ENTROPICO”
MOSTRA PERSONALE
Roma, Palazzo Velli
02/04 OTTOBRE 2020
E’ la seconda volta che presento Marcello Vandelli. In una diversa situazione, in una grande villa bolognese, con una serie di opere, mi sembrava, più convenzionale di queste. Qui vedo una originalità e una ricerca che dimostra coraggio. La cosa che mi colpisce, oltre l’entusiasmo, la vitalità, il piacere e anche la forza comunicativa di Vandelli, se guardate con attenzione queste opere, è che noi comprendiamo, come per un artista del passato, che si tratta della stessa mano, ma senza che lui faccia nulla per riconoscersi attraverso un modello come un riferimento riconoscibile.
Un artista generalmente fa sempre lo stesso quadro, Morandi fa lo stesso quadro, Fontana fa lo stesso quadro, Burri fa lo stesso quadro, perché hanno trovato una formula vincente, Botero fa tutto il mondo ingrassato, perché la cosa fondamentale per un artista è quella di essere riconosciuto. Occorre dire è un Morandi, un De Chirico, è un Vandelli…
Per cui un artista che non trova una formula o una cifra in cui farsi riconoscere è coraggioso, perché rischia di non essere riconosciuto.
Intanto, lui ha fatto una scelta molto intelligente che è quella di fare dipinti dello stesso formato: è il formato che ci dice sulla parete come il quadro ha un suo spazio e un suo racconto, sulle forme, sui simboli, sulle immagini. I colori sono i colori di Vandelli, il disegno è il disegno di Vandelli, ma Vandelli non sarà mai così vile da dire “io faccio sempre lo stesso soggetto”, in maniera tale che stile e immagine coincidano.
Se pensate a Capogrossi con le forchette, a Campigli… tutta la pittura del Novecento è una pittura che si umilia a rinunciare a raccontare il mondo, la fantasia, i sogni, per una formula che sia di immediata riconoscibilità, e con questo io posso dire che quello è Schifano, quello è Morandi.
Vedo su queste pareti quello che è una unità nel formato, le opere sembrano pensate per questo spazio secondo una misura mentale che dà il segno di una ragione, di un ordine che non corrisponde, invece, al suo modo spontaneo di porsi.
Non c’è nessuna spontaneità nel senso di farsi amare. Il contatto così immediato, così fisico del suo temperamento lo rende amico. C’è invece la disciplina di chi pensa che la pittura debba essere una realizzazione di un pensiero coerente e quindi, guardando vedo una disposizione precisa, come nella pittura dei grandi maestri ci sono il polittico o il trittico, secondo una simmetria. Quindi da un lato c’è simmetria, c’è misura, disciplina, dall’altro lato c’è, dentro quello spazio che la cornice delimita, la necessità di raccontare i sogni, la fantasia, che sono tanto vitali quanto più sono vari, tanto meno sono ripetitivi. Lo si capisce anche da come vive.
La cosa che più teme Vandelli è la noia.
Gran parte delle vite sono noiose, sono ripetitive, sono meccaniche, la persona che ha un lavoro tende a fare ogni giorno la stessa cosa.
L’idea di fare l’artista per Vandelli è l’idea di non avere nessun obbligo a seguire dei ritmi che sono sempre gli stessi quindi la fantasia è senza limite e lui vuole ogni volta raccontare la sua fantasia, i suoi sogni dentro lo spazio del dipinto. Ogni volta lui reiventa lo stile pur avendo una forma che è riconoscibile nel disegno e nella scelta dei colori. Può essere che lui sia un artista.
Oggi è molto difficile stabilire chi è un artista, se è un Tribunale del Popolo, se è una quantità di persone che acquistano i suoi quadri, se è un temperamento così singolare da essere riconosciuto come si dice di un artista perché è stravagante o bizzarro, però credo che questo sia un dato sociologico; nella definizione di artista, rispetto ai tempi, sono cambiate alcune regole, quindi non c’è più un committente o qualcuno a cui l’artista deve rispondere. Sono più di cento anni che l’artista è libero di fare quello che vuole. Alcuni si affermano, altri non si affermano.
Credo che la cosa che più colpisce sia che Vandelli non conceda niente all’immagine facile dell’artista bizzarro, capriccioso, drogato, con comportamenti stravaganti. C’è il suo carattere che è sufficiente e poi c’è la sua interiorità che è evidentemente molto ampia, c’è da raccontare l’esperienza della vita e la pittura è esattamente questo. Come un diario quotidiano di emozioni, di occasioni, di incontri.
Dal primo quadro fino in fondo ravviso, guardando e commentando per quello che vedo, l’ordine che lui ha dato alla scelta dei suoi quadri e poi la dirompente liberazione di immagini che sta dentro a queste cornici.
Un altro elemento importante rispetto al suo destino e alla sua volontà di essere artista è che non è neppure così facile capire che cosa ha guardato e quali sono i suoi riferimenti. Per un attimo ho pensato a Schifano, ma è una suggestione, per un altro lato ho pensato a Angeli. Sembra che questa sia la continuazione della Scuola Romana di Festa, Angeli, Schifano, sia negli smalti sia in queste immagini bianche dominanti, nei contorni delle figure che vengono poi inghiottite nel colore. E può essere… però certo in modo originale.
Non è un seguace di Schifano, un seguace di Festa, un seguace di Angeli, e d’altra parte, rispetto a loro, non ha nessun intendimento ideologico. Non è una pittura che si contrappone alla realtà o indica una sovversione o una rottura di uno schema, non c’è neanche quella volontà; gli artisti pensano di inventare sempre cose nuove, lui si è reso conto che non si può pensare di rompere e provocare, quindi ha un pensiero e cerca di restituirlo con un’immagine originale.
Ogni volta il dipinto ha una originalità che si intende come una sfida, una sfida con se stesso, la necessità di raccontare qualcosa senza farlo come ieri o l’altro ieri, Vandelli non fa una serie di dipinti, come invece era il tema di Schifano.
Se guardate questa parete vedete tre stili diversi e una forma sola, una sola idea che è quella del segno, del disegno, del colore, ma con soggetti totalmente diversi e, in fondo, anche uno stile che mi sembra connotare una dimensione psicologica che non è quella della ripetizione.
Lui sfugge alla noia, vuole proporre qualcosa che sia una provocazione di racconto, una storia che tu guardi e cerchi di capire cosa sia. In effetti guardando ho cercato di capire se volesse dirmi qualcosa, comunicarmi un messaggio, non c’è la volontà e la propaganda di essere dalla parte del giusto; spesso i pittori sono legati a parti politiche che combattono per utopie o ideali. Anche qui non vedo che ci siano particolari combattimenti. La società nella quale vive gli piace, gli consente di esistere, gli dà spazio. Non è un sovversivo, ma non è neppure un accademico. Farò fatica a dare una definizione. Io stesso oggi tornando non ho collegato quello che vedo con i dipinti che ho visto la volta precedente: questi mi sembrano più ordinati, più misurati, più corrispondenti a un progetto. Questo è lo spazio e qui deve darci la sua visione del mondo. Lo ha fatto in maniera generosa, in maniera doviziosa, senza risparmiarsi.
Pensare dove arriverà? Certamente da qualche parte arriverà, perché l’energia che egli esprime è quella esattamente di chi vuole essere riconosciuto come artista e con determinazione l’obiettivo si raggiunge. Occorre poi che queste opere trovino l’attenzione di un mercato perché i mercanti sono necessari nel mondo dell’arte, mancando i committenti è necessario che qualcuno si occupi della distribuzione, quindi il rapporto tra un artista e un mercante è obbligatorio, non è che uno in quanto è autonomo è libero e in quanto ha un mercante lo è meno. La connessione che prevede anche magari la figura del critico che deve in qualche modo giustificare quel rapporto, è la connessione tra chi inventa, crea, vive e chi si occupa di far conoscere quello che ha fatto.
Da questo punto di vista tutti i parametri per riconoscere la malattia dell’arte in Vandelli ci sono, come un paziente di un medico che lo considera un vero malato dell’arte. Che questa malattia, poi, sia una condizione di salute per un artista, cioè di capacità di far sentire la sua interiorità, si vede nel fatto che non è un pittore consolatorio, non è neanche un pittore disperante, ma non fa composizioni che siano rassicuranti, semplici, misurate, familiari, tende a stridere, a creare un effetto di emozione, di liberazione di una sensibilità.
Mi pare che siamo davanti a una personalità a cui il tempo giova, che non mancherà di sorprenderci e che per non annoiare se stesso non annoierà neanche noi. Saremo sempre sorpresi da quello che viene facendo e credo che avrà per l’avvenire le giuste sorprese che si merita.
Vittorio Sgarbi
L’arte di presagire emozioni e sentimenti collettivi è il punto forte della produzione di Marcello Vandelli, artista modenese e cosmopolita, cittadino del modo.
L’angoscia, l’inquietudine e la voglia di scavare dentro l’animo caratterizzano le notti creatrici dell’artista da sempre e adesso sono familiari a tutti noi che cerchiamo di dare risposte e soluzioni ad un presente incerto.
L’introspezione di Vandelli presagisce quell’introspezione a cui tutti noi siamo stati chiamati in un momento storico in cui la socialità è stata vissuta come il male maggiore, in cui ognuno di noi volontariamente o involontariamente è stato chiamato a riflettere su se stesso. Anche chi corre, chi va spedito, chi è avvolto nel tunnel del sistema vorticoso e veloce che caratterizza il nostro secolo si è fermato e si è guardato dentro facendo un bilancio del proprio operato, cercando di dosare e calibrare oltre le distanze anche i valori, quei valori che spesso dimentichiamo.
Se le nostre città deserte, inanimate e svuotate dal Covid-19 apparivano già nelle Piazze d’Italia di Giorgio de Chirico, paesaggi urbani sospesi e malinconici, lo stato d’animo dell’uomo chiuso nel proprio antro in notti insonni a riflettere su ciò che è stato e ciò che sarà era già familiare a Marcello Vandelli, che da sempre nella sua arte ha trasposto il frutto di quell’introspezione.
In primis i ricordi: nelle silhouette nere i corpi di donna richiamano quel flash nella sua memoria della prima donna nuda, visione rubata nell’adolescenza, quando nascosto con degli amici sbircia la zia di uno di essi mentre con una tinozza si lava; le teste rotanti su una giostra, quelle degli amici che lo lasciano a causa di una vita sregolata; l’incubo dell’AIDS che dopo un viaggio a New York e il bacio di una sconosciuta si insinua nella sua mente. I ricordi lasciano cicatrici, solchi e vuoti, quei vuoti che Marcello riempie rievocando nelle sue tele fantasmi del passato quasi con un’azione catartica.
Col suo modo di raccontare e raccontarsi Marcello si fa conoscere e apprezzare come artista dal 2000. A ricordo degli eventi sismici del 2012, espone l’opera “Ancora Christi” sulla facciata principale del Palazzo comunale di Mirandola: quella àncora tornerà ricorrente nella sua arte, simbolo di un solido aggancio alla realtà ma anche di un forte legame con chi i valori più saldi e positivi glieli ha trasmessi e non c’è più.
Un animo inquieto quello di Vandelli, caratterizzato da un dualismo che è quasi un ossimoro tra angoscia e giocosità. Il suo animo da fanciullo lo aiuta a donarsi e a donare la sua interiorità attraverso quella catarsi che metabolizza l’angoscia e la tramuta in creazione artistica.
Il frutto di tale lavoro interiore non può che essere un linguaggio profondo, intrigato ed intrigante, che spinge il fruitore a riflettere ed interrogarsi, a fare i conti con se stesso e con la propria interiorità. L’estro creativo, l’amore per il colore e per la materia cromatica aprono lo scenario ad una sperimentazione che non ha mai fine, che non si quieta, che si dona come continua evoluzione.
Vandelli gioca con i ricordi senza volto per raccontare degli stati d’animo. Da artista colto ed eclettico, amatore della Pop-Art italiana e di Modigliani, osserva e filtra gli interpreti delle avanguardie artistiche ma non li assorbe, perché il suo linguaggio è unico come unica è la sua interiorità che si traspone con una chiara e ben identificabile cifra stilistica nel Panorama Artistico Contemporaneo di cui è un egregio narratore.